La cantina di una volta (storia di giochi)

Un sentore indefinito, figlio della polvere e dell’umidità che ci mette sempre un po’ di sé. In file ordinate, nella parete di destra ricoperta da assi di legno, utensili appesi, ciascuno al suo chiodo; lo vedi subito se manca qualcosa, nel suo segnaposto vuoto.

Sotto, un tavolo da lavoro in legno antico con una morsa che promette fermezza qualora ne avessi bisogno. Addossati e ammassati alla parete di fronte, oggetti provenienti da molte vite, molti usi, molte storie.

Tutto questo mi osserva a sua volta, per sapere cosa ho intenzione di fare, perché nei miei giochi ne andrà della sorte di qualcuno di quegli oggetti. Sembrano tutti a testa china, come prima di una interrogazione, quando l’insegnante scorre il dito sull’elenco.

Un cartello troneggia sovrano sul luogo: “Ogni cosa al suo posto, un posto per ogni cosa”; vuole ricordare a noi bambini che – dopo – bisogna rimettere tutto al suo posto, e ho detto tutto.

Di quel posto ho assorbito il silenzio, e un senso di sospensione della vita che oggi ancora cerco, senza poterlo trovare facilmente come allora, quando passavo ore a realizzare con le mani i progetti consegnati a me dalla mia fantasia.

È tempo di uscire; risalgo le scale della mia consapevolezza, quelle vecchie in cemento polveroso che non valeva la pena di piastrellare, ed arrivo sul pianerottolo della mia vita ordinaria, con la quale riprendo contatto.

È stato bello poter scendere – ancora una volta – in quel posto di giochi, che ritrovo sempre in ordine nel mio animo, quando ogni cosa è al suo posto, perché c’è un posto per ogni cosa, qui dentro, proprio come allora.

© Scampoli

La cantina di una volta